Si è tenuta lo scorso 15 giugno la seconda e ultima dimostrazione dell’arte del Sake, su come si produce, come va bevuto a cosa si può accompagnare e come riconoscere quello di buona qualità
L’incontro fa parte della serie di eventi organizzati in occasione della mostra su “Hiroshige. Visioni dal Giappone” che sarà alle Scuderie del Quirinale fino al 29 luglio.
La dimostrazione presentata da Luca Rendina di Beregiapponese/Sake Company ha permesso al pubblico sulla magnifica terrazza delle Scuderie, aperta in via straordinaria, di percorrere un viaggio nell’antico e moderno Giappone.
Le origini del Sake sono databili tra il VI° il III° secolo a.c. quando le piantagioni di riso furono importate per la prima volta in Giappone. Il sakè, come è conosciuto oggi (seishu), risale agli inizi del periodo Edo ed è fortemente connesso alle più importanti cerimonie tradizionali giapponesi.
È per esempio utilizzato per la cerimonia di scambio dei bicchieri in segno di amicizia (katame-no-sakazuki), durante la quale persone senza legami di sangue acquisiscono una relazione di parentela.
Il Sake, va servito a volte fresco, altre a temperatura ambiente ed altre ancora caldo.
La temperatura alla quale deve essere servito dipende dal tipo di riso che è stato utilizzato e dal piatto che deve accompagnare.
Esistono circa cento tipi di riso diversi coltivati in maniera rivelante con cui si può fare la deliziosa bevanda.
Tra questi il Yamadanishiki è il più pregiato e viene utilizzato per la produzione del Sake top di gamma.
I produttori di Sake non lo coltivano, lo acquistano direttamente scegliendo la qualità preferita. Il riso viene portato ad un processo di fermentazione nel periodo compreso tra novembre e febbraio/marzo.
Il tipo di fermentazione si potrebbe assimilare a quella della birra ma ci sono alcune differenze: per fare la birra, l’orzo viene fatto maltare, ossia viene fatto germinare perché all’interno del cereale lo zucchero è sotto forma di amido.
A differenza della birra, nel Sake la trasformazione dell’amido in zucchero avviene con un fungo, l’Aspergillus (koj in giapponese) che per due giorni trasforma l’amido del riso in zucchero semplice. In seguito si ottiene la madre che si lascia riposare anche fino a trenta giorni, questa fase si chiama shubo.
Nel caso che la lavorazione dello shubo duri 30 giorni (metodo kimoto), la madre del sake viene mossa ogni 3-4 ore durante il giorno e la notte, è un lavoro duro, i Toji (coloro che girano la madre del Sake) dormono in azienda per un periodo che va dai tre ai cinque mesi.
Altre notizie importanti ci vengono date da Luca sulla gradazione del Sake che in generale è intorno al 15%, il secondo numero che si trova riportato sulle bottiglie è il Seimaibuai, ossia l’indice di lavorazione del riso.
Il numero viene stabilito in base a come viene limato il chicco e come viene brillato. La percentuale riportata es. 60 vuol dire che è stato tolto il 40% e ne resta il 60%.
Più è basso il valore della limatura e più il Sake è raffinato.
Sulla superficie del chicco di riso ci sono anche grassi e proteine che rendono il Sake corposo e saporito, attraverso la limatura si toglie la parte più esterna ottenendo una bevanda più fruttata ed elegante.
Una limatura minimo del 50% ci dà un tipo di Sake che si chiama DaiGinjo, ma si può arrivare anche a un 10%, questo ultimo tipo è molto pregiato.
La tazza in cui si beve si chiama ochoko, è in ceramica, bianca con dei cerchietti blu all’interno, simbolo dei sommelier giapponesi. L’ ochoko ha anche un’altra funzione, infatti guardando il fondo con i cerchietti blu si può notare se essi cambiano colore. Se il Sake fosse di colore giallino ed impuro, i cerchi blu diventerebbero verdi.
Durante la dimostrazione Luca ha fatto assaggiare agli ospiti diversi tipi di sake.
Il primo più dolce e fruttato si chiama Urakasumi Kiippon (tipologia: Junmai), il secondo più secco e alcolico, Azuma Tsuyahime (tipologia: Junmai Ginjo) da accompagnare con formaggi o alcune carni ed infine il terzo, l’Hatsumago Densho (tipologia: Hojozo) dalle note lattiche di yogurt.