Ho provato a cercare la parola resilienza su Google Immagini. Ne è venuta fuori una costellazione di figure che possono essere ricondotte a quattro principali topos iconografici:
– il bamboo. L’immagine dell’albero frustato dal vento che “si piega ma non si spezza” a indicare la flessibilità e la capacità di adattamento a un contesto avverso, senza la perdita della propria forma originaria, della propria integrità. Il successo dell’espressione si deve a Sant’Agostino che ribaltò il motto gentilizio del frangar, non flectar (“mi spezzerò, ma non mi piegherò”), prima di diventare, secoli dopo, lo slogan che accoglie i nuovi atleti in una qualsiasi palestra di judo. E’ probabilmente l’immagine che più si avvicina al significato originario del termine resilienza.
– la fatica di Sisifo. L’immagine mitica dell’eroe condannato a spingere un masso fino alla cima del monte. In questo caso la resilienza sembra rimandare più che altro alla capacità di resistenza e sopportazione delle avversità, in attesa che qualcosa cambi.
– Il fiore nel deserto. Qui il proliferare di immagini di fiori e piante dai colori sgargianti, che emergono nel bel mezzo di terreni brulli, aridi, crepati, è ipertrofico. La resilienza è un vagito di bellezza in un teatro di ombre e riecheggiano le parole di De Andrè: “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”.
– Il kintsugi, la tecnica giapponese di riparare porcellane e vasi rotti con metalli preziosi (oro e argento). La resilienza è quindi intesa come una capacità di ricomporre i pezzi dopo un evento traumatico, le cui ferite inferte possono ora brillare di nuova luce.
Il termine resilienza, da tempo inflazionato, ha una storia abbastanza comune. Nato come termine tecnico della fisica dei materiali – curiosamente condivide la stessa origine e lo stesso destino della parola “stress” – venne ripreso dalla psicologia, poco prima di essere fagocitato dal coaching motivazionale, digerito dalla cultura aziendale ed infine evacuato come prodotto di massa in una grande varietà di forme e colori: da keyword di molti blog su Tumblr, a mantra pseudo-zen, fino a tatuaggio per giovani in hangover su una spiaggia di Formentera.
Che il termine sia ormai normalizzato lo sentenziano diverse pagine satiriche in voga sui social network. Di frequente possiamo leggere: “Non fidatevi delle persone che usano la parola resilienza”.
La metafora della materia in grado di assorbire la forza d’urto, deformandosi ma non rompendosi, per poi riacquistare la forma iniziale, è effettivamente molto evocativa.
In psicologia, i primi studi che hanno preso in considerazione il costrutto della resilienza risalgono al 1992, quando il gruppo di ricerca californiano guidato da Emma Warner pubblicò uno studio longitudinale durato 30 anni su circa 700 neonati dell’isola Kauai, nelle Hawaii. Secondo le previsioni dei ricercatori, 201 soggetti avrebbero dovuto sviluppare problemi di adattamento, perché esposti a fattori di rischio: condizioni di povertà, presenza di malattie mentali, famiglie con alcolismo o caratterizzate da violenza e abusi.
Due terzi del campione, in effetti, confermarono le previsioni dei ricercatori, mostrando all’età di 18 anni difficoltà di apprendimento, adattamento sociale, scolastico e lavorativo.
Un terzo, tuttavia, smentì le previsioni. 72 dei bambini identificati come potenzialmente problematici erano diventati in modo imprevisto degli adulti ben integrati nella società, in grado di instaurare relazioni significative e di adattarsi al contesto scolastico o lavorativo con successo.
Il costrutto della resilienza sembrò allora avere un’utilità clinica. Era infatti inteso come discriminante, permetteva di dare un senso ad un fenomeno inatteso.
Cosa aveva reso quei 72 soggetti più preparati a superare i traumi infantili e a crescere come adulti “sani”?
Vennero con il tempo identificati una serie di fattori protettivi che caratterizzano l’individuo resiliente, desunti principalmente dal filone di ricerca della psicologia cognitiva: ottimismo, buona autostima, alta tolleranza alla frustrazione, supporto sociale, senso dell’umorismo, sono tutti fattori che permettono anche a coloro che hanno subito traumi devastanti di sviluppare un nucleo di personalità solido e in grado di fronteggiare un contesto avverso.
Oggi sembra che il costrutto, diffuso a buon mercato da una certa psicologia positiva e poi manipolato a piacimento dal senso comune, stia perdendo quella connotazione distintiva, per trasformarsi in prodotto seriale dello spirito, a uso e consumo delle masse in cerca di una formula di facile assimilazione. In fondo tutti possiamo superare i nostri piccoli grandi traumi, dalla rottura di una relazione sentimentale, a un lutto familiare, al licenziamento. L’importante è affrontare la vita con flessibilità, perseveranza, ottimismo e proattività.
La resilienza, come categoria psicologica, è entrata prepotentemente nel linguaggio comune perché perfettamente coerente con l’individualismo e la cultura del “think positive” di matrice anglosassone.
Tuttavia, la letteratura più recente sul trauma, tanto nordamericana quanto europea, sta recuperando il termine resilienza quale costrutto di senso, che permette di guardare alle risorse dell’individuo e del contesto per affrontare anche i casi più estremi di abuso, violenza e maltrattamento. La resilienza, che può caratterizzare anche intere comunità reduci da esperienze devastanti, può essere ricondotta alla capacità di dare senso agli eventi e ai vissuti traumatici, al fine di ri-simbolizzarli e costruire narrazioni più funzionali e orientate al futuro.
D’altra parte, come in tutti i casi di abuso lessicale, in molti casi del senso originario sembra ormai rimasta solo una sindone consumata. Sappiamo però come vanno queste cose. Capiterà anche a noi di abbassare la guardia. Ci coglierete in flagranza di reato, a utilizzare il termine resilienza, probabilmente per inciso o fra parentesi, di soppiatto, senza dare troppo nell’occhio. Siamo sicuri che ce lo farete notare – giustamente e senza alcuna remora.
Fonte © 2020 Ordine degli Psicologi del Lazio