L’abbiamo incontrata al “Festival delle scrittrici Inquiete” nella libreria Biblioteca Goffredo Mameli al Pigneto di Roma
La storia del libro “L’Arminuta” si svolge tra il 1974 e il 1976. Narra di una ragazzina che a 13 anni viene lasciata davanti a una porta e restituita alla madre biologica. L’Arminuta o restituita, la bambina con due madri.
Il rapporto obliquo che l’Arminuta in questo caso ha con la famiglia, con la madre e questa idea di maternità che confonde e disorienta è sempre presente nella sua letteratura . Mi sembra un’idea che parte da lontano ma che è sempre presente in tutti i suoi romanzi e qui trova il suo senso compiuto, è vero?
Si la maternità è quello che si può definire banalmente il mio “demone”. La relazione madre- figlia, corrisponde per me a un mio nodo personale irrisolto.
La condizione delle donne contadine che vivevano in realtà del genere, non solo in Abruzzo, negli anni ’60 e ’70 era tale che la vita era scandita dal ritmo luce-buio.
Le donne lavoravano tutto il giorno nei campi insieme agli uomini e ai muli.
Poi la sera quando rientravano in casa cominciava la seconda parte ovvero cominciavano a fare le casalinghe tutte le faccende che non erano riuscite a fare durante il giorno,
in quel momento scattava la differenza gli uomini allungavano i piedi verso la fiamma mentre le donne cominciavano questo secondo lavoro.
Mia madre, le mie zie e tutte le vicine non avevano tempo per i figli. Io racconto questo approcciarsi delle donne verso i figli piccoli, racconto questa perpendicolarità dell’approccio delle madri con bambini . Vuol dire che la madre interviene sui bambini piccoli solo per quei gesti necessari e indispensabili all’accudimento ovvero lavarli nutrirli metterli a letto.
Mancava il tempo delle carezze; quindi quel momento in cui la mano di tua madre diventa invece tangente alla tua guancia e al tuo corpo.
Ricordo, in modo molto vivo, mio nonno paterno, il suocero di mia madre, tremendo, quasi un po’ orco. Se mia madre si permetteva di prendermi in braccio veniva subito rimproverata perché stava perdendo tempo.
I bambini vivono tutto questo come mancanza, come ferita, come distanza e lontananza. Per noi le nostre madri erano sempre distanti, irraggiungibili; venivamo lasciati alle nonne oppure parcheggiati nei campi sotto l’ombra degli alberi e, da lontano, le vedevamo lavorare. Ogni tanto ci rivolgevano qualche sguardo.
Noi abbiamo portato per tutta la vita questo vissuto di ferita di una madre che ti guarda da lontano, ma non ti prende in braccio, non ti tocca, e, naturalmente non abbiamo mai sentito di essere la priorità. Per la madre io sentivo che era più importante o più urgente andare a raccogliere il fieno, perché altrimenti sarebbe arrivato il temporale, o andare a nutrire gli animali perché altrimenti le mucche avrebbero muggito e la loro voce era molto più forte della nostra.
Oggi la chiamo la mia incolpevole madre perché lei era soggetta a tutto questo, ma ho impiegato tutta una vita per scoprire la sua incolpevolezza.
Però l’arminuta nonostante tutto quello che le sta succedendo non è una ragazzina che punta il dito e che assegna delle colpe. Solo che in tutto questo, a un certo punto, sente il desiderio legittimo e giusto di collocarsi e avere dei punti di riferimento. Ci sono delle riflessioni sulla maternità molto mature, la voce narrante che scrive è una voce adulta e che racconta le cose accadute nel passato facendo delle riflessioni sulla maternità, su quel luogo inconoscibile che rappresenta
Che cosa significa essere famiglia oggi che cosa significa essere madri o avere una madre oggi? In che modo tu hai voluto legare questa storia con quello che sta succedendo oggi nel mondo della maternità e le discussioni in merito alle madri surrogate o alle adozioni da parte di famiglie di fatto? Lo hai fatto consapevolmente o inconsapevolmente?
All’inizio non ho pensato all’attualità né a quello che sta accadendo oggi, quello che io volevo raccontare soprattutto era la storia di un doppio abbandono. All’apparenza potrebbe sembrare una ricchezza questo raddoppio di famiglia e di madri. L’Arminuta è un romanzo di polarità. Una di queste polarità è la maternità biologica e la maternità adottiva poi c’è un’altra polarità fortissima di ambiente socio economico tra le due famiglie e c’è anche una polarità geografica. Anche la polarità linguistica è molto forte; perché l’Arminuta quando rientra in questa famiglia originale subisce anche questo shock linguistico. Lei torna parlando in italiano e si trova davanti a un dialetto, che, per lei è straniero; come per i suoi diventa lingua straniera il suo italiano. E, soprattutto c’è questa polarità di quella che lei fino a ieri ha chiamato mamma e che ora deve imparare a chiamare zia.
Dopo Il primo abbandono c’è il secondo abbandono che è quello della restituzione della sua madre adottiva alla sua madre biologica.
Lei è rimasta un po’ suggestionata perché nulla è stato svelato del passaggio di questa donna poiché lei fino a 13 anni vive in questo gigantesco teatro. Poi, tutto insieme arriva questa restituzione alla sua origine nel momento in cui lei rientra da questa porta, che, simbolicamente all’inizio non vuole nemmeno aprirsi. Da quel momento è priva di ogni senso di appartenenza perché ha perduto la madre adottiva, che sente dentro di sé ancora come madre, e non conosce quella che le viene presentata come la sua vera madre. Quindi, a ragione, si definisce orfana di due madri viventi.
L’Arminuta non ha un nome perché non ha un’appartenenza e, se non ha un appartenenza c’è anche un problema molto forte di identità: “non puoi dire chi sei se prima non hai capito Di chi sei”, quindi lei non sa più di chi è, e non sa a chi appartenere. Questo accade in una fase della vita in cui è chiamata a costruire la sua identità.
Proprio su questo che io volevo scrivere: su questo doppio abbandono. Perché già di per sé l’abbandono nel bambino evoca dei vissuti particolari; quando è doppio si rafforza un vissuto di indegnità, di colpevolezza; per cui, il bambino nel tentativo di salvare l’immagine ideale dei genitori da cui la sua vita dipende, preferisce, inconsapevolmente, addossare a sé la colpa, e quindi, si sente indegno di amore.
Ha pensato di lasciare ai lettori un indizio sull’ età di maturità raggiunta dalla protagonista per raccontare la sua storia con questo distacco?
In realtà c’è qualche indizio sulla sua età. Lei parla da un’età di 30 anni perché sarebbe stato impossibile che una tredicenne in presa diretta raccontasse quello che le accade con questa consapevolezza.
Sono stati necessari questi anni perché lei potesse raccontare la storia dall’alto, avendo già tollerato e metabolizzato, non sappiamo come, una trasformazione su questo suo materiale biografico. Non poteva essere diversamente.
In realtà io dico pochissimo della sua vera età, lascio solo qualche indizio come questa sua abitudine all’infelicità e ai problemi con il sonno. Lei dice che non dorme. Ha questi problemi, ed è forse il minimo che possa accadere a chi ha subito una storia del genere.
Addormentarci è un gesto così naturale che facciamo. Richiede una grande capacità di abbandono nell’altro senso del termine, cioè la capacità di lasciarsi andare accettando di perdere il controllo su sè stessi avendo fiducia nel risveglio cioè con la consapevolezza di riaprire gli occhi ed essere ancora vivi nel mondo a cui apparteniamo. Lei questa fiducia non ce l’ha.
Anche se, poi, la protagonista va a recuperare quello che le è mancato sul piano del rapporto verticale madre- figlio o padre- figlio, con il rapporto orizzontale; cioè quello con la sorella biologica Adriana. Ma, anche, con altre figure femminili come l’amica o la madre dell’amica. Ciononostante non tutti i vuoti sono riempiti, la ferita resta, il recupero è solo parziale, e, lascia sicuramente i suoi segni
In che modo la tua terra e la tua lingua d’origine diventano protagoniste di tutti i tuoi romanzi in modo così dirompente?
Questa è la mia lingua madre, l’ho utilizzata per alcuni elementi funzionali alla storia. Questa mia appartenenza al territorio riguarda proprio la lingua.
L’Abruzzo è come un personaggio un po’ ingombrante, che, io, all’inizio cerco di tenere a freno, e poi me lo ritrovo sempre che deborda nel testo. Questo ci riporta anche banalmente, la forza delle radici che va oltre le nostre intenzioni. In questo libro, in particolare, l’elemento più forte legato al territorio è proprio la lingua; questo dialetto che è un dialetto periferico marginale molto frammentato. Quello che mi interessava nel libro è la funzionalità del dialetto rispetto al racconto della famiglia biologica quindi l’ho usato per quello che poteva essere utile
“Essa” ed “Ecco” sono termini dialettali utilizzati molto nel suo romanzo, perché?
Esso, essa, essi sono termini dialettali appunto per indicare cose e persone, il dialetto infatti non ha pronomi personali ma li ha uguali per persone animali cose, così come non ha parole per l’affettività o i sentimenti come amore, amare
Un personaggio maschile molto forte che è Vincenzo che rappresenta forse la sensualità. In questo libro, l’Arminuta sembra quasi non avere un corpo, a volte sembra essere talmente presa dai problemi di appartenenza che vive il suo tempo non come un tempo di possibilità o di scoperta. Vincenzo fa quello che deve fare svolgendo appieno il suo ruolo di seduttore, però ecco chiedo qualcosa in più su questo personaggio molto affascinante
Vincenzo svolge la sua funzione che è quella di riportare in vita un corpo, e, lo riporta in vita proprio con il suo sguardo. Lo sguardo seduttivo di un fratello che la percorre, la tocca da cima a fondo, e, che le ricorda chi lei è in quel momento e anche che sta crescendo anzi è già cresciuta. Ha questo corpo nuovo con degli ingombri nuovi, racconta anche di come ha vissuto questa crescita improvvisa insieme all’amica coetanea nella città. Quindi c’è questo spazio riservato all’adolescenza e alla crescita. Anche se, poi Vincenzo in realtà è suo fratello, pur non comportandosi da tale.
Io gli lascio vivere questo amore in maniera molto innocente senza alcuna colpa. Non si percepisce nulla di incestuoso nella loro breve relazione erotica.
Carla D’Aronzo