“I Peccatori” al cinema dal 17 aprile distribuito da Warner Bros. Pictures. Di Ryan Coogler con Michael B. Jordan, Hailee Steinfeld, Miles Caton, Jack O’Connell, Wunmi Mosaku, Jayme Lawson, Omar Miller, Delroy Lindo
Nel panorama del cinema contemporaneo, pochi registi sono riusciti a costruire una poetica visiva e narrativa così riconoscibile e allo stesso tempo versatile come Ryan Coogler. Dopo aver ridefinito l’epica sportiva con “Creed” e rivoluzionato il blockbuster supereroistico con “Black Panther”, Coogler torna dietro la macchina da presa per firmare un’opera radicalmente diversa, ma altrettanto viscerale: “I Peccatori”.
È un film che non si limita a esplorare il genere horror, ma lo decompone e lo ricostruisce attraverso le lenti della memoria collettiva, della fratellanza e della colpa. Ambientato in un’America rurale e spezzata del primo dopoguerra, “I Peccatori” è un’opera stratificata, fortemente identitaria e impreziosita da una regia che danza tra l’onirico e il carnale, tra il gotico e il blues.
Michael B. Jordan, attore feticcio di Coogler, è chiamato a una sfida titanica: interpretare i gemelli Stack e Smoke, sopravvissuti alla Prima Guerra Mondiale e alla criminalità di Chicago. Tornano a casa per reinventarsi, ma la loro città natale, come nei migliori racconti gotici, li attende come un ventre che non ha mai smesso di digerirli. È un ritorno che puzza di sangue antico, di segreti sepolti e di promesse fatte al buio.
Jordan si sdoppia con una naturalezza inquietante, incarnando due anime distinte ma complementari: uno più razionale, l’altro più istintivo, entrambi segnati da traumi invisibili ma profondissimi. La sua interpretazione è camaleontica, precisa nei dettagli, nella voce, nella postura.
Stack e Smoke non si limitano a sembrare due persone diverse: sono due persone diverse, eppure legate da un destino comune. Ed è proprio in questo “vedere doppio” che il film costruisce la sua tensione primaria, quasi come se la vera minaccia non fosse il male esterno, ma quello riflesso nello specchio.
Coogler definisce “I Peccatori” come la sua lettera d’amore all’horror. Ma non si tratta di un horror convenzionale di facili spaventi. L’orrore di questo film è più sottile, viscerale, sociale. È il trauma intergenerazionale, il retaggio della schiavitù e della povertà. È il ritorno forzato in una terra che ha smesso di essere casa.
Il regista si rifà a mostri sacri come “Shining”, “Scappa – Get Out” e persino “Jurassic Park” (che, a ben vedere, è un film horror mascherato da avventura), e li piega al proprio linguaggio cinematografico. Ne risulta un’opera visivamente sontuosa (le riprese in IMAX sono semplicemente magnetiche), ma anche narrativamente densa. Coogler non cerca di spaventare lo spettatore quanto piuttosto di ferirlo emotivamente, lasciandogli una cicatrice che brucia anche dopo i titoli di coda (bellissima e inattesa la scena finale dopo di essi).
Se Michael B. Jordan è la colonna portante del film, Hailee Steinfeld e Miles Caton sono le sue anime complementari. Steinfeld interpreta Mary, un personaggio scritto con sorprendente complessità: non è semplicemente una “fidanzata del passato”, ma una donna che lotta con il potere che sa di avere e con il prezzo che ha pagato per ottenerlo. È affilata come una lama e tenera come un rimpianto.
Caton, invece, è la rivelazione. Il suo Sammie, giovane musicista blues, cugino dei gemelli, è la voce dell’anima del film. Il blues qui non è solo colonna sonora: è struttura narrativa, è linfa vitale. Le performance musicali, curate dal premio Oscar Ludwig Göransson, sono momenti di intensità emotiva. In particolare, la scena in cui Caton canta I Lied to You è già materiale da antologia cinematografica.
La festa nell’ex mattatoio è insieme al blues, i corpi che danzano, i movimenti, il sudore, la carne, l’amore, l’anima del film che attrae e lega lo spettatore in ciò che è proibito e desiderato.
Poi c’è Jack O’Connell che firma uno dei personaggi più imprevedibili della stagione: Remmick, un vampiro che canta musica tradizionale irlandese, parla come un predicatore esistenzialista e si aggira tra i campi del Mississippi come un Nosferatu decadente. È un personaggio scritto con brillante ambiguità: mostro o redentore? Demone o profeta? O’Connell lo interpreta con una magnetica ambivalenza, rendendolo la perfetta incarnazione del “male che attrae”, dell’oscurità che consola.
“I Peccatori” è un film profondamente cinefilo. I riferimenti, le stratificazioni, i richiami alla storia del cinema e della musica afroamericana sono ovunque. Ma, e qui sta la magia di Coogler, non è mai un film elitario. Al contrario, è stato concepito per il pubblico, per essere vissuto in sala, in un’unica esperienza collettiva, come ha raccontato lo stesso regista. E funziona.
Perché sì, ci si spaventa. Ma si ride anche. E si piange e si canta. E si esce dalla sala con una sensazione precisa: di aver vissuto qualcosa di unico.
“I Peccatori” è un film che non chiede di essere semplicemente visto, ma vissuto. E possibilmente in compagnia di sconosciuti, al buio. Perché, come recita la tagline: “Continua a ballare con il diavolo… un giorno ti seguirà fino a casa”. E a quel punto, non ti resta che ballare.