“…Gabriele trascorre 23 ore al giorno nella sua cameretta, sua madre gli lascia i pasti su un vassoio fuori dalla sua porta, dorme durante il giorno, si sveglia la sera e passa tutta la notte a navigare in rete e a giocare ai videogiochi”. Per la madre non ci sono dubbi: “È drogato di videogiochi!” Ma è davvero così?
C’è ancora molta confusione fra la dipendenza da internet, autoreclusione e modus vivendi, cerchiamo di fare un po’ di chiarezza in questo articolo.
Iniziamo slegando la dipendenza da internet dal fenomeno dell’autoreclusione o Hikikomori, che merita uno spazio apposito. È ormai dimostrato che i ragazzi che si ritirano progressivamente dalla vita sociale per rintanarsi nella propria casa, non lo fanno per trascorrere più tempo a videogiocare o a postare video su YouTube, ma come risposta a pressioni interne ed esterne divenute inaffrontabili. Può anzi capitare che la rete vada loro in soccorso come unico canale di contatto con il mondo esterno.
Negli ultimi vent’anni anni si è cercato di delineare il contesto in cui si configurano i nuovi modi di pensare, di percepire il tempo e lo spazio, il rapporto dell’individuo con la realtà, con l’altro da sé, con la propria identità. Nell’interrogarsi sugli effetti dei cambiamenti introdotti dalle tecnologie dell’era digitale si è visto che questi investono contemporaneamente gli stili di vita e la sfera senso-percettiva, i modelli cognitivi e l’apprendimento, e l’assetto emotivo – affettivo.
Ci siamo chiesti se questi giovani, nati e cresciuti all’interno di una società dominata dallo sviluppo di una tecnologia così seduttiva e interattiva, siano effettivamente “malati di internet” oppure se ci troviamo di fronte a fenomeni che nascono proprio dall’interazione tra la rete e la mente.
Un’ipotesi non esclude l’altra e non sempre è possibile distinguere un uso fisiologico di internet da un uso patologico. E qui, ahimè non ci aiutano criteri quali il tempo trascorso online o la tipologia di siti visitati, quello su cui va posta l’attenzione è che cosa rappresenta internet per quella persona, e perché la realtà è divenuta tanto intollerabile da desiderare eluderla.
Partendo da alcune semplici considerazioni, conosceremo meglio questa generazione, quella dei figli e nipoti, affinché ci appaia meno aliena!
Se le tecnologie sottraggono tempo al gioco o allo sport o allo stare coi compagni allora dovremmo preoccuparci, se lo sottraggono alla televisione allora forse è tempo ben speso.
I consumi di televisione si sono progressivamente abbattuti nei bambini, nei suoi tempi d’oro il tempo trascorso davanti allo schermo era di circa 4 ore al giorno, oggi siamo a 2. I Nativi Digitali, così sono soprannominati i nati dopo gli anni 90, preferiscono il media interattivo a quello ipnotico.
Mentre nascevano i Nativi Digitali, nella società si diffondevano gli schermi interattivi come strumento di comunicazione, sorpassando l’unico modo che i teledipendenti avevano per comunicare con la tv, che era cambiare canale! Quello era il tasso di interattività concesso.
Qui invece si è veramente dentro lo schermo, nel senso che, mentre il televisore lo accendi e ti compare subito il programma, se apri Google non succede niente, devi fare un gesto attivo di ricerca.
Per i ND la parola alfabetica è uno dei tanti codici, e sicuramente il più difficile da interpretare.
Loro sono immersi in un mondo fatto di video, grafica, animazione, suono e anche parola. Ma la parola è il codice più difficile, il meno immediato, per questo non lo eleggono come modo principe per comunicare.
A ciò si aggiunge che, vivendo immersi in questo mondo multicodicale, i ragazzi faticano a relazionarsi con chi li sta traghettando verso questo mondo, cioè con gli adulti. Questa dicotomia non è sempre così secca, però è un fatto che, da un certo momento in poi, le cose non sono più come prima.
A chi mi dice che il figlio passa troppe ore davanti al computer, chiedo sempre chi ce l’ha messo e a che età.
Se anche il contesto di crescita familiare ha promosso fin dall’infanzia l’accesso e il consumo digitale, diventa difficile capire a quali criteri dobbiamo attingere per distinguerne un uso sano da un uso patologico.
Prima di accusare internet, quale trappola del demonio, è opportuno chiederci come stava prima il ragazzo, perché la tecnologia slatentizza problemi già presenti, di certo non li crea.
Tuttavia non è sempre facile fare questa netta distinzione, ma quando il computer si sostituisce alla partita di pallone, alle uscite con gli amici o alla scuola, allora è il caso di confrontarsi con uno specialista.
Preso atto che le caratteristiche del Cyberspazio si prestano a far perdere la cognizione del tempo sempre più con l’aumentare dell’interattività, è inevitabile che la rete lo sottragga alle relazioni.
Dopo essersi dilungato in internet, l’adolescente non riesce con semplicità a reinserisci nella quotidianità familiare.
Le relazioni web mediate diventano patologiche se non sono più in funzione della realtà ma tendono a sostituirla, il resto fa parte inevitabilmente di un’evoluzione nel modo di stare al mondo nei più giovani. “Se le cose funzionano e il contesto affettivo dove si cresce è sano, la dipendenza non diventa una malattia ma rimane una tendenza naturale della nostra mente che diminuisce con il passare degli anni senza peraltro sparire mai” (cit. F. Tonioni).
Non dimentichiamoci che il Cyberspazio è un mondo parallelo al nostro che può essere funzionale ai nostri desideri, è come costruire un’alternativa alla realtà, alle volte complicata, in un’età già di per sé complessa come quella dell’adolescenza.
Sviluppare una dipendenza patologica significa cercare di sopravvivere a una minaccia più grande che lo stesso dipendente avverte senza esserne del tutto consapevole. Non mi riferisco alla totalità dei ragazzi, i quali sono ineccepibilmente in grado di scambiare, anche nella rete, scambi affettivi, ma a coloro che non riuscendo ad elaborare pensieri creativi regrediscono a forme primitive di comunicazioni e finiscono per confondere se stessi con la macchina, o a considerare il computer come un’estensione del proprio corpo.
Buona estate!
Dott.ssa Elena Albieri, psicologa psicoterapeuta