La scorsa settimana siamo rimasti che la cultura postmoderna induce l’individuo a essere il solo artefice dei propri successi e ad agire la propria libertà per il raggiungimento di quel “tutto e subito” anche nei rapporti interpersonali.
La frustrazione di non ricevere la risposta che soddisfi i propri individualistici bisogni, può diventare così intollerabile da concludersi con una distanza emotiva o addirittura con la fine del rapporto. Il valore auto-accentratore giustifica i mezzi per il conseguimento del proprio fine: la realizzazione di sé e, come in guerra, non si fanno prigionieri. In quest’ottica si allacciano relazioni in cui si ricerca una gratificazione immediata: “Se me la puoi garantire bene, altrimenti passo oltre“. Il partner diventa una sorta di bene di consumo da gettare quando non appaga più quella parte patologica di sé.
Il risultato è che si passa da un rapporto a un’altro, rimanendo perennemente insoddisfatti.
L’analogia con gli oggetti di consumo calza a pennello: oggi non si ripara più nulla, si sostituisce, così le coppie vengono in terapia per essere ottenere una legittimazione a lasciarsi, non per risanare il legame.
Diventando l’individuo fautore del proprio destino, sottrae spazio alla coppia. L’adultiscenza, il mito dell’estetica, l’onnipotenza, il mantra “io valgo”, l’iperinvestimento narcisistico su di sé, hanno ammutinato la tradizionale funzione sociale del matrimonio, quella della procreazione, della trasmissione ereditaria del nome e dei beni della famiglia. Sono saltati tutti i riti di passaggio che fortificavano i legami di appartenenza sociale.
La coppia, con i suoi vecchi e nuovi meccanismi di fondazione e mantenimento ha di fatto subito un attacco frontale di proporzioni inaudite e tali dispositivi si sono depauperati dietro l’alibi della libertà ad ogni costo. Gli slogan la celebrano: “Per funzionare un rapporto, bisogna lasciare libero l’altro di decidere della propria vita“.
Siamo passati dall’unione permanente, finalizzata alla formazione di una famiglia che orientava inequivocabilmente scelte, decisioni e parametri, per i quali il coinvolgimento sentimentale non era per nulla essenziale, ma che in qualche modo ne tutelava la tenuta, a un’idea di amore romantico, della serie: “al cuore non si comanda“.
Nell’era postmoderna ci si lega con estrema velocità, e si affermano con trasporto le parole “ti amo“, così come quelle di chiusura “non ti amo più”. On/off é il nuovo funzionamento delle coppie.
Assistiamo inermi a una frammentazione strutturale che non trova, per il momento, nessuna possibilità di ricomposizione.
Il carico da novanta lo mette pure l’ascesa dell’individuo e la sua incessante ricerca della felicità. Il principio del piacere rende gli impegni coniugali, irraggiungibili, eccessivamente responsabilizzanti o comunque mortificanti. Il legame tradizionale ha perso il suo appeal.
Questo trend ha generato il paradosso che il partner (e non la coppia) sia un “tutto”, e su di lui si riversano le attese. Il legame diviene in tal modo un’opportunità tramite cui si crede di poter guarire le ferite d’amore, le carenze affettive, le delusioni subite durante l’infanzia.
Poiché ci aspettiamo che la relazione soddisfi tali aspettative, in questa logica fiabesca, si riversano tutti i bisogni residuali della vita socio-affettiva sul partner.
Il risultato è l’ineluttabile risultato che le relazioni diventano, a breve, deludenti.
Non c’è spazio per una progettualità comune.
Si vive solo il presente, per una percezione, giusta o errata, di una crisi socio-politica-familiare in atto, che diffonde l’idea che ognuno deve pensare per sé e non si deve rendere conto a nessuno. L’individualismo é considerata una skill che non si può non possedere. Per la stessa convinzione che tutto è lecito perché oggi tutto si può fare, l’individuo e i suoi irrinunciabili bisogni sono diventati narcisisticamente più importanti, e in questa trappola non sa più decentrarsi e pensarsi come adulto e generativo.
Forte di questa nuova fede, egli perpetua i consueti espedienti per soddisfarsi, senza mai appagarsi, come se mangiasse non sentendosi mai sazio.
Il tramonto dei valori è sempre più lampante nella durata delle relazioni e, soprattutto, nella spasmodica e incessante ricerca di un benessere individuale che non prevede l’esistenza di relazioni significative.
E allora dove rintracciare il senso dello stare assieme?
La “soluzione” non é certo nel porre distanze, tutt’al più di accorciarle ed essere così, costretti a incontrarsi faccia a faccia, perché così non c’è altro modo per costruire un legami profondo.
Allo stesso modo non c’è motivo per concepire la dipendenza dall’altro come qualcosa di nocivo cui fuggire ad ogni costo.
C’è una parte fisiologica che ci dice che dipendere dalle relazioni ha una funzione propulsiva, significa dire: “Io mi fido di te”.
Non si deve temere di perdere la propria individualità.
Si ha un “Io” proprio perché esiste il contrapposto “altro” che lo circoscrive e che si pone in continua relazione.
Aldilà delle specificità, l’individuo che intende portare avanti un legame deve imparare a governare l’imperante principio del piacere. Dovrà limitare le aspettative: non attendere nulla fa sì che anche gli altri non lo facciano; questa è l’unica libertà di cui si dispone.
Per invertire il trend delle statistiche che vedono separazioni e divorzi gli unici vincitori, é opportuno prendere coscienza di sé e della situazione che ci circonda, fare i conti con il passato.
Tollerare le fatiche quotidiane derivanti dall’incontro di due personalità.
Accettare i propri limiti e quelli altrui e aver il coraggio di progettare, sempre, anche quando i precedenti sono andati in mille pezzi.
L’incontro autentico con l’altro costituisce l’opera d’arte più bella da realizzare.
Quella nella quale, nonostante il divenire mutevole delle proprie caratteristiche che impone il tempo, e quindi anche l’accettazione della propria mortalità.
Perché il bene comune della coppia rimanga il fine comune da conseguire.
Dottoressa Elena Albieri
psicoteapeuta e psicologa
Photo: Pruebate Magazine