Se ci si sposa con un divorziato pensando di non dover avere più niente a che fare con la sua ex moglie, ci si sbaglia di grosso
Nel caso peggiore, ci si può trovare in Tribunale l’una contro l’altra per spartirsi la pensione di reversibilità del de cuius.
È il caso di due donne, l’una con 40 anni di matrimonio alle spalle, divorziata e titolare di un assegno di mantenimento.
L’altra, sposata solo da tre anni con il pensionato, poi deceduto.
Si ritrovano in Tribunale a reclamare il trattamento pensionistico di reversibilità.
Ciò perché la legge prevede che abbiano diritto ad esso sia la moglie superstite che la moglie divorziata, che sia titolare di assegno di divorzio.
Ma come si ripartisce?
La determinazione delle quote, in percentuale, viene fatta dal Giudice, secondo determinati criteri.
Primo elemento che andrà valutato è la durata dei due rapporti matrimoniali.
Rispetto al secondo matrimonio la giurisprudenza prende in considerazione anche il periodo della convivenza prematrimoniale, elemento che viene considerato quale correttivo del criterio matematico.
Sebbene infatti la seconda moglie avesse alle spalle solo tre anni di matrimonio, lo stesso era stato preceduto da una convivenza durata dieci anni.
Nella determinazione delle quote, il Tribunale ha preso in considerazione una serie di altri parametri quali: le rispettive condizioni economiche, l’entità dell’assegno di divorzio percepito dalla prima moglie, nonché l’età delle due ex.
Possono entrare in gioco anche altre situazioni particolari, quali, ad esempio, una precaria condizione di salute di una delle parti.
Contemperando i vari parametri, all’esito del giudizio, il Tribunale ha ritenuto spettare alla moglie superstite il 70% della pensione, mentre all’altra solo il 30%.
Ciò perché scopo della pensione di reversibilità è, rispetto al coniuge superstite, quello di assicurargli lo stesso tenore di vita che aveva nel corso del matrimonio, e, rispetto al coniuge divorziato, una funzione assistenziale.